Giacomo Ceruti, il Pitocchetto (Milano 1698-1767)
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Giacomo Ceruti, il Pitocchetto (Milano 1698-1767)

Diana e le ninfe sorprese da Atteone

Details
Giacomo Ceruti, il Pitocchetto (Milano 1698-1767)
Diana e le ninfe sorprese da Atteone
olio su tela
203 x 620 cm.
Provenance
Milano, Palazzo Arconati Visconti
Literature
A. Morassi, Un capolavoro sconosciuto di Giacomo Ceruti 'veneto', in 'Arterama' 3, 1972, marzo, pp. 3-8.
M. Gregori, Giacomo Ceruti, Bergamo 1982, p. 458, n. 164; riprodotto a pp. 316-17.
F. Arisi, Il 'Ritratto di condottiero' del Ceruti, cinque battaglie e altro, in 'Memorie bresciane' I 1981 (ma: 1982), 1, nota 9.
M. Gregori, in Giacomo Ceruti. Il Pitocchetto. Catalogo della mostra (Brescia 13 giugno-31 ottobre 1987) Milano 1987, p. 46.
F. Frangi, in M. Gregori (a cura di), Pittura a Milano: dal Seicento al Neoclassicismo, Milano 1999, pp. 314-15.
Special notice
Where there is no symbol Christie's generally sells lots under the Margin Scheme. The final price charged to Buyer's for each lot, is calculated in the following way: 30% of the final bid price of each lot up to and including € 5.000,00 26% of the excess of the hammer price above €5.000,00 and up and including € 400.000,00 18,5% of the excess of the hammer price above €400.000,00
Sale room notice
Per il presente lotto è stato avviato un provvedimento di dichiarazione di importante interesse da parte della Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico per le Provincie di Milano Bergamo Como Lecco Lodi Pavia Sondrio Varese.
The Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico per le Provincie di Milano Bergamo Como Lecco Lodi Pavia Sondrio Varese has begun a process of declaring this work of national importance.

Lot Essay

Lo straordinario dipinto che qui presentiamo, eccezionale per dimensioni e illustre per documentata provenienza, propone un aspetto senza dubbio inconsueto della produzione di Giacomo Ceruti.
A Brescia, sua patria di elezione fin dai primi anni Venti del Settecento, l'artista si era guadagnato il soprannome di "Pitocchetto" in virtù delle sue raffigurazioni, straordinarie per realismo e intima partecipazione, della gente del popolo e dei mendicanti (per l'appunto, i pitocchi), veri e propri ritratti che trovano nel cosiddetto ciclo Avogadro di Padernello il loro momento più alto.
Sono ancora questi soggetti a sollecitare, nel 1736, la committenza del Maresciallo Schulenburg, e il trasferimento dell'artista lombardo a Venezia e poi a Padova, dove la sua attività per la Basilica del Santo e per altre chiese è documentata nel 1737-39. Per il pittore, non più giovanissimo, il soggiorno lagunare e le commissioni pubbliche ottenute negli anni successivi si rivelano l'occasione di acquisire e padroneggiare strumenti stilistici e compositivi tali da consentirgli un'attività, forse più proficua e comunque di più ampia risonanza, come pittore 'di storia', condotta negli anni successivi accanto alla pratica del ritratto e della scena di genere, che da questa esperienza risulterà in ogni caso rinnovata. Tornato a Milano, dove è documentato nel 1742 e ancora nel 1743-44, fino al trasferimento a Piacenza, l'artista riceve infatti varie commissioni tra le quali, con ogni probabilità, quella per il ciclo di storie di Diana di cui la nostra tela fa parte.
Come riportato da Antonio Morassi, che per primo ne diede notizia, prima del secondo conflitto mondiale il nostro dipinto si trovava infatti nel palazzo già Arconati Visconti a Milano, dove insieme ad altre due tele maggiori per dimensioni, raffiguranti il Trionfo di Diana e il mito di Diana e Endimione, occupava a mo' di fregio la parte superiore di un salone aperto sul giardino. Si deve supporre che un'altra tela, non più rintracciata, completasse il fregio sulla parete di entrata, opposta a quella decorata dal nostro dipinto.
Sebbene Giuseppe Arconati Visconti (1700-1763), personaggio di spicco nella vita pubblica milanese nei primi anni Quaranta, sembrasse qualificarsi come possibile committente del ciclo, tale ruolo è stato giustamente posto in discussione da Mina Gregori, la prima a pubblicare anche il nostro dipinto: alla data che, per motivi stilistici, è stata proposta per la realizzazione delle tele, la famiglia Arconati non risultava infatti risiedere nel palazzo che ne serba il nome.
Più recentemente, Francesco Frangi ha portato nuovi elementi utili all'identificazione del committente delle storie di Diana, indicando come già nel 1684 il palazzo fosse stato acquistato dal marchese Antonio Calderara, la cui famiglia ne conservò la proprietà fino alla sua estinzione alla fine del Settecento. Già nel 1694, secondo un inventario che descrive il palazzo, tre stanze al primo piano erano ornate da fregi dipinti su tela, al posto delle più consuete decorazioni a fresco, segno che già a quella data era stato adottato un modello decorativo simile a quello che sarà ripetuto più tardi, con l'intervento che qui ci interessa. Sebbene verso la fine del secolo altre sale fossero state decorate dagli affreschi di Sebastiano Ricci (1694-96) e dalle tele del Legnanino, nel 1737 erano in corso nuovi lavori di abbellimento. Risale infatti a quell'anno la menzione del Padre Serviliano Latuada, che nella sua Descrizione di Milano... dà conto di lavori di completamento e abbellimento in corso nella 'bella casa dei marchesi Calderara' impegnati ad adornarla di 'pregiatissime tele de' più lodati maestri' (S. Latuada III, 1737-38, p. 121). Abbellimenti che, verosimilmente, si protrassero nella prima metà del decennio successivo, almeno fino agli anni 1742-43 in cui Ceruti è di nuovo a Milano, prima di recarsi a Piacenza dove, ancora una volta, sarà impegnato nell'esecuzione di dipinti 'di storia' oltre che di ritratto. Fra i primi, i tredici dipinti di soggetto mitologico tra cui un 'quadro grande bislongo con il Trionfo di Diana' documentati nell'inventario del conte Pietro Scotti di Sarnato del 1751, confermano che le grandi storie di Diana dipinte per il palazzo Calderara, già Arconati, non furono assolutamente un episodio isolato nella produzione dell'artista lombardo. È comunque con la pala piacentina di Sant'Alessandro, ora nella chiesa di Santa Teresa a Piacenza, documentata del 1744-45, che il nostro dipinto e il Trionfo di Diana nella medesima raccolta (ancora inedita è la terza tela del ciclo, Diana e Endimione) deve paragonarsi grazie al sapiente uso dello scorcio nella costruzione della veduta dal basso: strumenti che il Ceruti aveva maturato a Venezia, sull'esempio quanto mai attuale di Giovanni Battista Pittoni, riducendolo tuttavia alla sodezza tutta lombarda di linee e volumi. Ed è ancora con le sante dipinte a Padova nel 1737-39, nella pala di Santa Giustina per la Basilica del Santo, e in quella di Santa Lucia per la chiesa omonima, che dobbiamo confrontare la grazia florida e neo-cinquecentesca delle ninfe di Diana nel nostro dipinto: con tutta evidenza esso viene dunque a iscriversi anche stilisticamente tra i due soggiorni extra-lombardi dell'artista milanese.
Il ciclo di palazzo Arconati, legato al tema delle ninfe cacciatrici, si lega altresì anche alla pratica settecentesca di decorare le dimore di campagna con raffigurazioni di tema venatorio, accompagnate da vere e proprie nature morte di selvaggina. Lo stesso Ceruti contribuì a questo genere con splendide prove, tra cui il grande Ritratto di gentiluomo a caccia, già nella collezione di Sir Harold Acton a Firenze, e con quello del marchese Carlo Cosimo Medici di Marignano, recente ed importante aggiunta al catalogo dell'artista lombardo, restituitogli da Alessandro Morandotti nel 1996 e poi esposto a Milano (La Milano del Giovin Signore. Le arti nel Settecento di Parini. A cura di Ferdinando Mazzocca e Alessandro Morandotti, 14 dicembre 1999 - 12 aprile 2000. Catalogo della mostra, Milano 1999, p. 230, n. 33, riprodotto a colori).

Il mito racconta che Atteone liberò veltri e mastini, all'inseguimento di bestie selvatiche. I cani, dopo aver perlustrato luoghi incolti e solitari, giunsero ad una radura dove la dea Diana era nuda, contornata da giovani ninfe, intenta a bagnarsi. La Dea, indignatasi alla vista del giovane, lo trasformò in cervo e il cacciatore, divenuto oggetto di caccia, fu preda dei suoi stessi cani. La vicenda rappresenta il tragico epilogo della caccia all'Incommensurabile. Atteone è allo stesso tempo cacciatore e preda; la vista della divinità, infatti, lo costringe a sacrificare la sua stessa vita.