Lot Essay
Il 1949 segna una svolta nel modo di dipingere di Capogrossi: dopo i primi decenni contrassegnati da una pittura figurativa fatta di ritratti, nature morte e nudi, si affaccia prepotentemente una fase astrattista che non lo abbandonerà più.
Nascono contrasti e "calamitamenti" di segni, spesso in bianco e nero, che si ripetono algebricamente all'infinito e che mettono "in moto" le sue grandi tele.
La scelta del non-colore accentua la meditazione nella mente di chi vede e si sposa perfettamente con le tendenze optical degli anni sessanta, tutte tese ad inscenare giochi prospettici e trasmettere vibrazioni ottiche.
Le dicotomie di bianco e nero, di pieni e vuoti che evocano "spine dorsali" risultanti dallo spazio libero lasciato dalle file contrapposte dei suoi tridenti, rendono protagonista un segno che rappresenta tutto ormai.
"Avevo dieci annni e mi trovavo a Roma. Un giorno andai con mia madre in un istituto di ciechi. In una sala due bambini disegnavano. Mi avvicinai: i fogli erano pieni di piccoli segni neri, una sorta di alfabeto misterioso, ma così vibrante che, per quanto all'età non pensassi affatto all'arte, provai una profonda emozione. Sentii fin da allora che i segni non sono necessariamente l'immagine di qualcosa che si è visto, ma possono esprimere qualcosa che è dentro di noi, forse la tensione che deriva dall'essere immersi nella realtà. In quel preciso momento nacque, credo, la mia vocazione artistica; e non riuscirono a spegnerla gli studi classici che, per tradizione familiare dovetti seguire fino a prendere la laurea in diritto. Mi dedicai interamente alla pittura e fui per molti anni e con notevole successo un pittore "figurativo". Vi sono ancora molte persone che rimpiangono il mio talento perduto, mentre i più benevoli si meravigliano della mia "conversione" alla pittura astratta. Io però sono convinto di non avere sostanzialmente cambiato la mia pittura, ma di averla soltanto chiarita. Fin da principio infatti ho cercato di non contentarmi dell'apparenza della natura, ho sempre pensato che lo spazio è una realtà interna alla nostra coscienza, e mi sono proposto di definirlo.
Al principio ho usato immagini naturali, paragoni o affinità derivate dal mondo visibile; poi ho cercato di esprimere direttamente il senso dello spazio che non poteva vedere. La mia ambizione è di aiutare gli uomini a vedere quello che i loro occhi non percepiscono: la prospettiva dello spazio nel quale nascono le loro opinioni ed azioni" (Argan G. C., Capogrossi, Editalia, Roma, 1967, p. 45)
Nascono contrasti e "calamitamenti" di segni, spesso in bianco e nero, che si ripetono algebricamente all'infinito e che mettono "in moto" le sue grandi tele.
La scelta del non-colore accentua la meditazione nella mente di chi vede e si sposa perfettamente con le tendenze optical degli anni sessanta, tutte tese ad inscenare giochi prospettici e trasmettere vibrazioni ottiche.
Le dicotomie di bianco e nero, di pieni e vuoti che evocano "spine dorsali" risultanti dallo spazio libero lasciato dalle file contrapposte dei suoi tridenti, rendono protagonista un segno che rappresenta tutto ormai.
"Avevo dieci annni e mi trovavo a Roma. Un giorno andai con mia madre in un istituto di ciechi. In una sala due bambini disegnavano. Mi avvicinai: i fogli erano pieni di piccoli segni neri, una sorta di alfabeto misterioso, ma così vibrante che, per quanto all'età non pensassi affatto all'arte, provai una profonda emozione. Sentii fin da allora che i segni non sono necessariamente l'immagine di qualcosa che si è visto, ma possono esprimere qualcosa che è dentro di noi, forse la tensione che deriva dall'essere immersi nella realtà. In quel preciso momento nacque, credo, la mia vocazione artistica; e non riuscirono a spegnerla gli studi classici che, per tradizione familiare dovetti seguire fino a prendere la laurea in diritto. Mi dedicai interamente alla pittura e fui per molti anni e con notevole successo un pittore "figurativo". Vi sono ancora molte persone che rimpiangono il mio talento perduto, mentre i più benevoli si meravigliano della mia "conversione" alla pittura astratta. Io però sono convinto di non avere sostanzialmente cambiato la mia pittura, ma di averla soltanto chiarita. Fin da principio infatti ho cercato di non contentarmi dell'apparenza della natura, ho sempre pensato che lo spazio è una realtà interna alla nostra coscienza, e mi sono proposto di definirlo.
Al principio ho usato immagini naturali, paragoni o affinità derivate dal mondo visibile; poi ho cercato di esprimere direttamente il senso dello spazio che non poteva vedere. La mia ambizione è di aiutare gli uomini a vedere quello che i loro occhi non percepiscono: la prospettiva dello spazio nel quale nascono le loro opinioni ed azioni" (Argan G. C., Capogrossi, Editalia, Roma, 1967, p. 45)